venerdì 8 gennaio 2010

La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo – il film.

Non perdete tempo (e ossigeno) a sbuffare ed esprimere un rimprovero per l’inesattezza commessa da chi scrive, perché dietro il presunto errore si nasconde un preciso principio: fra le pagine di questo blog non leggerete mai quella pessima prova di adattamento in lingua italiana del titolo di questo film, peraltro ben nota. Ma di questo parleremo oltre.
Audrey Niffenegger, autrice del romanzo da cui il film è tratto, ci aveva detto (qui) che preferiva evitare commenti sul film. A quel tempo il film era ancora in preparazione, ma interpellata nuovamente, Audrey ha comprensibilmente rinnovato il suo diniego.
Va detto subito: la fedeltà della sceneggiatura al romanzo è pressoché totale. Se si è amato il libro sarà difficile non apprezzare il film. Le atmosfere della storia d’origine sono trasposte in maniera efficace, i dialoghi sono estremamente simili, quando non identici, e nel lungometraggio si ritrova persino il ritmo veloce del susseguirsi degli episodi descritti nel romanzo (suddiviso per date e non in capitoli). Sceneggiatori e regista (Robert Schwentke) hanno dunque trasformato la parola scritta in immagine, senza perdere nemmeno una sillaba (un fotogramma).
La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” (non ha importanza ora specificare se parliamo del film o del romanzo) è (anche) la storia di una relazione fra una donna e un uomo. Su di essa aleggia uno spirito di predeterminazione degli eventi che rende prevedibile e ineluttabile il suo svolgimento, senza però che si perdano il ritmo e il senso di attesa, e con essi la speranza di cambiamento.
Non vale la pena soffermarsi sull’apparente conflitto fra libero arbitrio e predestinazione, sia perché se ne è già parlato fin troppo e molte volte, sia perché, come ci ha detto Audrey, la predestinazione è la semplice conseguenza delle regole stabilite per il tipo di viaggio nel tempo utilizzato in questa storia, ovvero la decisione dell’autrice di eliminare la possibilità di paradossi temporali. Senza questo espediente la narrazione sarebbe diventata oggettivamente ingovernabile.
La tragedia conclusiva è annunciata piuttosto presto, ma gli spettatori meno inclini al buio esistenzialista non possono in realtà lamentarsi troppo, perché per un uomo nelle condizioni di Henry De Tamble la vita è tutto sommato ricca di istanti di pura gioia e scorre nel segno di un innamoramento al di fuori di ogni regola; dall’unione fra i protagonisti nascerà inoltre una figlia capace di sconfiggere la malattia (la “crono-alterazione”) e anzi di riuscire a governarla, riscattando le lunghe e penose sofferenze paterne.
Henry (Eric Bana) è un uomo pieno di coraggio e generosità, e Clare Abshire (Rachel McAdams) una donna dolce e generosa a sua volta. La storia non si basa certo, insomma, sull’originalità dei personaggi che ne sono protagonisti. Il paradosso temporale domina incontrastato, attraverso una sceneggiatura piena di incroci e salti, fra i quali non ci si perde nemmeno per un attimo. La stessa Audrey Niffenegger riconosce che “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” è un romanzo di fantascienza pura, e le va riconosciuta l’assoluta originalità dell’invenzione della malattia del protagonista, che si fonda sulla riduzione del concetto di viaggio nel tempo da dono mitico a condanna mortale.
Ma una lettura più attenta (e soggettiva) potrebbe mettere in luce altri spunti.
La malattia di Henry De Tamble sembra connessa al suo stato emozionale: i balzi nel tempo avvengono in esatta coincidenza con i momenti più importanti della sua esistenza (risparmiamoci la facile battuta della fuga dal matrimonio). Il medico genetista che si occupa del suo caso spiega in proposito che le alterazioni encefaliche, che sono alla base del meccanismo d’innesco del balzo temporale, sono simili a quelle tipiche dell’epilessia, e ipotizza una cura sulla base di quest’affinità. Ma andando oltre la pur indispensabile spiegazione organicistica, potremmo tentare di individuare la presenza di una con-causa psichica, sulla base dell’ipotesi che qualunque sia la ragione dei salti, essa non può che risiedere nell’inconscio.
I salti temporali potrebbero essere quindi l’espressione di un movimento inconscio del protagonista, movimento derivante dalla volontà di impedire a se stesso di vivere quei momenti così determinanti per la sua vita. Una specie di castrazione. Una fuga da se stesso. Sono molte le malattie del corpo che hanno una genesi (almeno parzialmente) psichica, e che vengono talora “utilizzate” in funzione di una pulsione inconscia; nel caso di Henry De Tamble si giunge ad un parossismo dall’utile valore simbolico.
Henry è un uomo, e suo malgrado affronta il problema in modo razionale: si sforza di assecondarlo, cerca di capire. Impara a forzare le serrature, a procurarsi i vestiti. Si allena nella corsa. Quando viaggia nel tempo, deve sopravvivere. Non è in grado (e chi lo sarebbe al suo posto?) di accettare la ramanzina di Clare che lo accusa di essere stato assente per ben due settimane, proprio a cavallo del Natale e del Capodanno, perché sa che non è giusto. Eppure qualcosa in questa scena ci suggerisce che nemmeno il risentimento di Clare è fuori luogo. Sentiamo che esiste, o può esistere, un livello profondo di “colpevolezza” di Henry nelle sue fughe, talmente profondo che rimane taciuto. Una colpevolezza simile a quella di un sogno fatto per rendere la realtà più brutta di come sia. La non-incolpabile colpevolezza dell’inconscio.
E così, quando chiede alla piccola Alba come faccia a soli sei anni a controllare la sua crono-alterazione e a decidere addirittura in che periodo recarsi, papà Henry si sente semplicemente rispondere “io canto, quando sento che sto per andare e non voglio andare”. Una strategia che si rivela del tutto inefficace per il povero Henry, sempre più vittima di se stesso e della propria straordinaria sensibilità, quella stessa sensibilità che lo ha condotto a innamorarsi di una donna in cui riconosce la bellezza della bambina di un tempo, già tanto libera a soli cinque anni, da lasciarsi andare a reiterati incontri con il misterioso visitatore a cui mette sistematicamente a disposizione un paio di scarpe e dei vestiti puliti.
È Alba a rappresentare il finale positivo che si contrappone alla tragedia di suo padre. Alba è la nascita che sconfigge la morte, la sanità che prevale sulla malattia, la speranza che si sostituisce alla predeterminazione. Ed è grazie all'ostinazione di sua madre (dopo la vasectomia di Henry Clare si fa mettere incinta da un Henry giovane apparso nella sua auto) che Alba nasce, a dispetto dell'ennesimo tentativo di castrazione dell'uomo, resosi sterile.
Si interrompe così il maleficio dei ripetuti aborti, che dunque non sono affatto dovuti alla crono-alterazione del feto, come paventato in un primo tempo. Del resto, a ben vedere, sarebbe assurdo, quasi quanto dire che il feto sogna (c’è chi lo pensa, ma non è il caso di chi vi scrive).
Lanciamo infine nel web un ironico “grazie” alla catena della distribuzione di questo film, che in USA ha guadagnato più di sessanta milioni di dollari, e che da noi invece, complici una permanenza in sala per quindici soli giorni, un confinamento nei grandi cinema multi-sala della periferia, una campagna promozionale carente (per non dire inesistente), e infine un titolo improponibile, è stato un autentico flop commerciale.
Immeritato, per un film di primissimo ordine, adatto ad amanti del genere fantastico e non. Allo stato attuale, si è obbligati a scaricarlo online, per poterlo vedere. Con buona pace di quegli spot sulla “pirateria” prodotti dagli stessi che hanno boicottato questo bel film.

sabato 2 gennaio 2010

Moon.

Un impianto lunare per l’estrazione di Elio 3, un uomo, Sam Bell, addetto ad esso in totale solitudine, e un robot-computer che controlla tutto. Una moglie lontana con cui l’uomo comunica in modo istantaneo tramite un ponte radio su Giove. Una breve serie di visioni e un senso di straniamento. E un incidente, in seguito a cui Sam si sveglia e si ritrova di fronte al suo sosia.
Questi gli ingredienti essenziali del film di Duncan Jones che ha riscosso grande apprezzamento al Festival della Fantascienza di Trieste.
Una fantascienza sobria, di matrice chiaramente britannica, cadenzata dai ritmi dell’immobile realtà del paesaggio lunare, e dal suo unico (si fa per dire) abitante. Se un appunto è lecito, il film pecca in effetti in alcuni eccessi di lentezza durante il primo tempo, nel quale sono condensate le numerose ed esplicite citazioni di capisaldi del genere, da 2001 Odissea nello Spazio, a Solaris, e perché no, forse anche della prima serie di Spazio: 1999. Proprio queste citazioni sembrano voler chiarire subito allo spettatore che è opportuno abbandonare ogni velleità di ritmi serrati, o di grandiosi effetti speciali di scuola americana, e accettare la proposizione di una breve ed efficace biografia interiore.
Moon è la storia di un uomo qualunque, che si ritrova in una situazione oscura e avvilente ma non si rassegna ad essa, e lotta per uscirne.
Il film è giocato quasi esclusivamente sullo spaesamento del protagonista, sulla sua crescente inquietudine, magistralmente rappresentata attraverso i due punti di vista relativi ai due sosia, e dunque molto diversi fra loro. Eccellente risulta in tal senso la performance di Sam Rockwell (e del suo doppiatore Riccardo Rossi), che impersona in maniera credibile le due “versioni” di Sam Bell, e il rapporto che fra esse si stabilisce, non privo di scontri anche sul piano fisico, che sembrano voler rappresentare il conflitto interiore fra le due dimensioni di un unico essere umano, scisso fra la sensazione di essere vittima di una macchinazione e la necessità di sopravvivere aggrappandosi alla realtà apparente.
Dietro una simile contrapposizione si intravede l’antitesi fra due livelli di maturità diversi all’interno di uno stesso percorso esistenziale, che si tramuta in un’alleanza che in qualche modo rappresenta la risoluzione del conflitto e apre una possibilità di uscita dalla crisi che si è determinata.
In alcuni tratti si fa fatica a rammentare quale dei due Sam Bell fosse il primo apparso sulla scena all’inizio del film, ed è solo grazie ai cerotti sul naso di uno dei due che si riesce a orientarsi.
A tutto ciò si aggiunge la presenza perturbante del robot-computer Gerty (in v.o. Kevin Spacey, in italiano Roberto Pedicini), dal quale ci si aspetta fino all'ultimo istante il tradimento annunciato in stile 2001.
Non ci sono tutto sommato idee assolutamente originali in Moon, ma di certo la sapiente combinazione di più temi cari alla letteratura e alla cinematografia fantascientifica ha prodotto una storia originale e convincente.
Una fantascienza classica in chiave moderna e in perfetto stile British.