Perché uscire di casa fisicamente, quando basta collegarsi in rete per fare amicizia, mantenere relazioni e rapporti, lavorare, e perfino divertirsi, il tutto con il vantaggio di una maggior sicurezza e di un minor dispendio di energie?
No, non è di twitter, o di facebook, che stiamo parlando, ma di quella che potrebbe essere la loro evoluzione in un futuro non molto vicino.
Tratto da una graphic novel del 2005 (“The surrogates”, che è anche il titolo del film in lingua originale), Il Mondo dei Replicanti (altra pessima prova di adattamento di titolo in lingua italiana) riprende idee già viste a profusione nella fantascienza vicina e lontana; alcune immagini dei protagonisti in stato di incoscienza sui loro lettini sembrano esplicite citazioni di dozzine di film e animazioni, dal capostipite (solo in senso cinematografico) Matrix in giù.
Con la differenza che di virtuale, in questo caso nel senso di posticcio e sostituibile, c'è solo il corpo utilizzato dagli individui (che ricorda terribilmente le “custodie” di R. K. Morgan in Bay City e sequel), che si muove nella concreta realtà esterna, al posto di quello di carne ed ossa.
In questo senso il film rovescia i termini tradizionali, facendo del tessuto urbano reale una specie di immenso videogioco in cui tutto è possibile, e grazie a cui il rischio per l'incolumità personale è azzerato.
Finché, naturalmente, qualcuno si ribella.
Ciò che il film aggiunge in termini psicologici è il senso di straniamento totale associato all'estremizzarsi dell'idea che quella vissuta dal proprio “surrogato” (la copia artificiale della propria persona in movimento all'esterno) sia l'unica esistenza possibile. In altri termini, uscire di casa senza usare il corpo artificiale, ma quello autentico, è sconveniente, pericoloso e sconsigliabile.
Per non parlare poi del fattore estetico.
Ingrassati, deteriorati, atrofizzati, goffi, i vecchi organismi con cui siamo nati sono del tutto inadatti a sopravvivere a un semplice incrocio stradale, o alla luce del sole. E quando un ribelle Bruce Willis (l'unico che come surrogato ha un aspetto peggiore che come persona reale) osa avventurarsi in città in simili condizioni, la precarietà diventa drammaticamente tangibile, e il solo fatto di camminare all'aperto viene vissuto come una rischiosa violazione del buon senso comune.
Riconosciuti i meriti del film (sito ufficiale qui), che non pretende di dire più di quel che racconta in modo avvincente e piacevole, bisognerebbe aprire un'ampia digressione sul successo della virtualità nella fantascienza moderna.
Intendo usare questa parola in senso talmente ampio ed eterogeneo da includervi decine di mondi immaginari profondamente diversi l'uno dall'altro: dalla realtà virtuale in senso stretto (ormai talmente endemica da apparire persino banale) di Matrix o di ExistenZ, entrambi del 1999, (o scavando indietro nel tempo, de Il Tagliaerbe, già nel 1992), ai metaversi/cyberspazi del blasonato sottogenere cyberpunk (da W. Gibson in poi) e/o del vecchio film Tron (del 1982!), alle alienanti atmosfere di P. K. Dick, alle rielaborazioni della virtualità in chiave moderna di cui è esempio il farraginoso racconto I Simulacri di Vernon Vinge, passando per l'up/download dell'identità individuale in corpi diversi nella meravigliosa serie dei citati romanzi di R. K. Morgan che hanno per protagonista Takeshi Kovacs, fino ad arrivare all'osannato Avatar, appena arrivato in Italia, che si colloca nella zona di confine fra tutto ciò, che è fantascienza in senso stretto, e le migliaia di versioni della virtualità raccontate dal genere Fantasy, su cui pure ci sarebbe molto da dire (amesso di masticarne di più del sottoscritto).
Mondi del tutto diversi fra loro, accomunati da un movimento di allontanamento, in misura variabile, dalla realtà materiale. Spesso, tramite il ricorso a futuribili tecnologie informatiche.
Sembra che il viaggio a grande distanza spaziale dalla Terra, che un tempo era la dominante narrativa del genere, sia stato rimpiazzato in grandiosità e interesse dal viaggio a grande distanza dalla dimensione della normalità di tutti i giorni. La conquista dei pianeti è stata sostituita dall'esplorazione di realtà alternative, lo smarrimento e il senso di infinito del cosmo superati dall'alienazione in realtà virtuali in senso lato.
Dall'infinito esterno a quello, in qualche modo, interno.
Che dietro a tutto questo si nasconda il desiderio di esplorazione di tutto ciò che dell'essere umano è considerato ancora ignoto è evidente.
E così, proprio come in un sogno, l'esplorazione ci attrae, e ci corrisponde, oppure diventa mostruosa e angosciante. Nel caso di questo film la corrispondenza sta nella ribellione ad un'esistenza basata sulla rinuncia ai rapporti veri. Forse c'è qualcosa da imparare in merito già in questo secolo.
Dunque, ancora una volta, il genere fantastico si rivela in grado di compiere passi importanti nella ricerca della definizione dell'essere umano.
Anche, perché no, usando i “Surrogati”.
No, non è di twitter, o di facebook, che stiamo parlando, ma di quella che potrebbe essere la loro evoluzione in un futuro non molto vicino.
Tratto da una graphic novel del 2005 (“The surrogates”, che è anche il titolo del film in lingua originale), Il Mondo dei Replicanti (altra pessima prova di adattamento di titolo in lingua italiana) riprende idee già viste a profusione nella fantascienza vicina e lontana; alcune immagini dei protagonisti in stato di incoscienza sui loro lettini sembrano esplicite citazioni di dozzine di film e animazioni, dal capostipite (solo in senso cinematografico) Matrix in giù.
Con la differenza che di virtuale, in questo caso nel senso di posticcio e sostituibile, c'è solo il corpo utilizzato dagli individui (che ricorda terribilmente le “custodie” di R. K. Morgan in Bay City e sequel), che si muove nella concreta realtà esterna, al posto di quello di carne ed ossa.
In questo senso il film rovescia i termini tradizionali, facendo del tessuto urbano reale una specie di immenso videogioco in cui tutto è possibile, e grazie a cui il rischio per l'incolumità personale è azzerato.
Finché, naturalmente, qualcuno si ribella.
Ciò che il film aggiunge in termini psicologici è il senso di straniamento totale associato all'estremizzarsi dell'idea che quella vissuta dal proprio “surrogato” (la copia artificiale della propria persona in movimento all'esterno) sia l'unica esistenza possibile. In altri termini, uscire di casa senza usare il corpo artificiale, ma quello autentico, è sconveniente, pericoloso e sconsigliabile.
Per non parlare poi del fattore estetico.
Ingrassati, deteriorati, atrofizzati, goffi, i vecchi organismi con cui siamo nati sono del tutto inadatti a sopravvivere a un semplice incrocio stradale, o alla luce del sole. E quando un ribelle Bruce Willis (l'unico che come surrogato ha un aspetto peggiore che come persona reale) osa avventurarsi in città in simili condizioni, la precarietà diventa drammaticamente tangibile, e il solo fatto di camminare all'aperto viene vissuto come una rischiosa violazione del buon senso comune.
Riconosciuti i meriti del film (sito ufficiale qui), che non pretende di dire più di quel che racconta in modo avvincente e piacevole, bisognerebbe aprire un'ampia digressione sul successo della virtualità nella fantascienza moderna.
Intendo usare questa parola in senso talmente ampio ed eterogeneo da includervi decine di mondi immaginari profondamente diversi l'uno dall'altro: dalla realtà virtuale in senso stretto (ormai talmente endemica da apparire persino banale) di Matrix o di ExistenZ, entrambi del 1999, (o scavando indietro nel tempo, de Il Tagliaerbe, già nel 1992), ai metaversi/cyberspazi del blasonato sottogenere cyberpunk (da W. Gibson in poi) e/o del vecchio film Tron (del 1982!), alle alienanti atmosfere di P. K. Dick, alle rielaborazioni della virtualità in chiave moderna di cui è esempio il farraginoso racconto I Simulacri di Vernon Vinge, passando per l'up/download dell'identità individuale in corpi diversi nella meravigliosa serie dei citati romanzi di R. K. Morgan che hanno per protagonista Takeshi Kovacs, fino ad arrivare all'osannato Avatar, appena arrivato in Italia, che si colloca nella zona di confine fra tutto ciò, che è fantascienza in senso stretto, e le migliaia di versioni della virtualità raccontate dal genere Fantasy, su cui pure ci sarebbe molto da dire (amesso di masticarne di più del sottoscritto).
Mondi del tutto diversi fra loro, accomunati da un movimento di allontanamento, in misura variabile, dalla realtà materiale. Spesso, tramite il ricorso a futuribili tecnologie informatiche.
Sembra che il viaggio a grande distanza spaziale dalla Terra, che un tempo era la dominante narrativa del genere, sia stato rimpiazzato in grandiosità e interesse dal viaggio a grande distanza dalla dimensione della normalità di tutti i giorni. La conquista dei pianeti è stata sostituita dall'esplorazione di realtà alternative, lo smarrimento e il senso di infinito del cosmo superati dall'alienazione in realtà virtuali in senso lato.
Dall'infinito esterno a quello, in qualche modo, interno.
Che dietro a tutto questo si nasconda il desiderio di esplorazione di tutto ciò che dell'essere umano è considerato ancora ignoto è evidente.
E così, proprio come in un sogno, l'esplorazione ci attrae, e ci corrisponde, oppure diventa mostruosa e angosciante. Nel caso di questo film la corrispondenza sta nella ribellione ad un'esistenza basata sulla rinuncia ai rapporti veri. Forse c'è qualcosa da imparare in merito già in questo secolo.
Dunque, ancora una volta, il genere fantastico si rivela in grado di compiere passi importanti nella ricerca della definizione dell'essere umano.
Anche, perché no, usando i “Surrogati”.